Sala del '400

Il medioevo (sala 2)



Nella sala II sono presenti manufatti e opere di diversa provenienza, tutte ascrivibili all’età medievale: la croce, che, secondo la tradizione, Roberto il Guiscardo portava sempre con sé in battaglia come protezione personale; il sigillo di Romualdo II Guarna; l’affresco del primo quarto del XIII secolo, raffigurante una coppia di Santi, probabilmente San Nicola e San Giovanni Evangelista, proveniente dalla chiesa di Santa Maria de Lama; ed il Crocifisso, detto del Barliario, proveniente dal Monastero di San Benedetto.
La croce di Roberto il Guiscardo, risalente alla seconda metà delll’XI secolo, si presenta molto rimaneggiata, è costituita da un’anima lignea, che per la forma rimanda a modelli bizantini, è rivestita da ambo i lati da due lamine di ottone dorato impreziosite con filigrana a “vermicelli” e pietre dure, tipica lavorazione palermitana, e smalti traslucidi incastonati sul recto, provenienti forse da qualche arredo liturgico.
Il sigillo agiografico di Romualdo II Guarna, datato seconda metà del XII secolo, in rame, riporta una delle immagini più antiche di San Matteo in Salerno, fu trovato in un’urna con reliquie intorno al 1950 nell’area sulla quale si elevava l’altare del Poerio all’interno del Duomo. Romualdo II Guarna di nobile famiglia longobarda è stato arcivescovo di Salerno dal 1153 alla sua morte nel 1181, medico, diplomatico, mecenate, esperto canonista e agiografo.
Il Crocifisso detto del Barliario, è un mirabile esempio di arte lignea dell’ultimo quarto del XIII secolo, che riproduce la figura del Cristo Triumphans, come vuole la tradizione orientale bizantina. Benché notevolmente rovinato durante un incendio nell’Ottocento, presenta ancora un viso fortemente espressivo ed è completato da due tabelle laterali raffiguranti la Madre e San Giovanni. Alla storia del crocifisso si lega la tradizionale fiera locale e la leggenda dell’alchimista salernitano Pietro Barliario; si narra, infatti, che il mago, dopo aver provocato la morte dei suoi nipoti nel suo laboratorio, si sia recato a chiedere perdono ai piedi del Crocifisso, il quale, si dice abbia chinato il capo in segno di accoglimento del pentimento e di perdono.

L'exultet (sala 3)



Il manoscritto membranaceo della seconda metà del XIII secolo è conservato nella sala III del Museo. L’Exultet, detto anche Preconium paschale o Laus cerei, ossia l’inno liturgico con il quale un diacono o un cantore durante la veglia del Sabato Santo, dopo aver benedetto il fuoco e acceso il cero pasquale, proclama la Resurrezione di Cristo e la vittoria della luce sulle tenebre, si dispiega su undici fogli di pergamena caprina miniati a tempera e oro, ordinati in un rapporto inverso tra testo e immagine, in maniera tale che a mano a mano che il diacono proclamava e svolgeva il rotolo dall’ambone, l’uditorio poteva seguirne il contenuto attraverso la sua trasposizione visiva. Il primo foglio, anche se mutilo, riporta l’incipit dell’inno, vergato in scrittura gotica nastriforme con inchiostro bruno e oro applicato a conchiglia, gli altri illustrano momenti della liturgia vigiliare del Sabato Santo e del disegno salvifico di Cristo, ma senza l’accompagnamento del testo, il tutto racchiuso in una cornice su fondo oro a cerchi rossi alternati ad altri azzurri, nei quali è iscritto un romboide. Il pregevole rotolo si configura come una delle opere più complete e meglio armonizzate nel suo genere per la varietà delle miniature e l’equilibrata fusione di elementi artistici; attualmente è smembrato ed esposto in fogli, racchiusi in teche autoclimatizzanti, ideate dall’Istituto Centrale di Patologia del Libro per consentirne una migliore conservazione e fruizione.

Dal Medioevo al Rinascimento (sala 4)



La sala IV accoglie opere di diversa natura e provenienza risalenti al periodo tra XIV e XVI secolo. Immediatamente colpisce la Crocifissione di Roberto de Odorisio, tavola proveniente dalla chiesa di San Francesco in Eboli, unica opera firmata dall’autore, considerato il maggiore pittore napoletano segnato dalla venuta di Giotto, che ha saputo dare alla scena rappresentata un’interpretazione di profonda intensità poetica attraverso la scelta cromatica dello sfondo e delle vesti e l’addolcimento estenuato delle fisionomie e degli incarnati. Sulla parete di fondo spicca il Trittico della Madonna con Bambino fra i santi Giovanni Battista, Francesco d’Assisi, Bernardino da Siena e Sebastiano del salernitano Vincenzo de Rogata del 1493-98 circa, proveniente dalla chiesa del Monte dei Morti, che mostra influenze stilistiche dei repertori figurativi adriatico-ferraresi. La costruzione volumetrica delle figure protagoniste della tavola e il trono marmoreo su cui siede la Vergine, sormontato dall’archivolto ricorda modi di composizione bramantesca, inoltre le tre coppie sono accomunate dal fondo oro, ma accolte e separate da quattro colonnine tortili su cui si impostano tre archi tribolati con cuspidi gotico-catalane. Di considerevole importanza risulta il San Michele Arcangelo di Cristoforo Scacco, datato 1503-1505 circa, in cui riunisce l’iconografia del Santo in qualità di pesatore di anime e guerriero strenuo difensore del bene; si coglie un certo interesse per le atmosfere umbro-emiliane nelle superfici arrotondate, nelle fattezze morbide del volto e un rimando leonardesco nei monti immersi nella foschia azzurrina sullo sfondo. Dalla chiesa salernitana dei Santi Crispino e Crispiniano, già sede della Confraternita dei calzolai, proviene la tela della Pietà e Santi, risalente all’ultimo quarto del XIV secolo e attribuita ad un certo Ferrante Maglione, ultima bella voce del Trecento napoletano, che si ispira nella composizione per piani degradanti a modelli gotico-senesi e il cui linguaggio artistico risente di influenze avignonesi e dei modi pittorici di Simone Martini.
La sala, inoltre, accoglie altri pregevoli manufatti: un tabernacolo in marmo del primo quarto del XVI secolo, raffigurante una camera prospettica sormontata dalla colomba dello Spirito Santo, originariamente posizionato nella parete a fianco all’altare della chiesa dell’Annunziata; e due originali opere in alabastro calcareo, una Natività e una Pietà datate XVI secolo, una “scrittura per immagini” con alta definizione dei dettagli che richiama modelli arcaici di rappresentazione, secondo cui le dimensioni dei personaggi corrispondevano alla loro importanza teologica a dispetto di un adeguato impianto prospettico.
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Nel museo


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Tour del museo


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